Rocca Chiarano

Y3,un sentiero poco frequentato, da Passo Godi


Nel bel mezzo della metà di un Luglio torrido l’afa continuava ad imperversare, non riuscivamo nemmeno a pensare di dover passare un week end tra le arroventate mura casalinghe rintanati ad evitare il peggio, era previsto il passaggio di una veloce perturbazione con abbassamento di temperatura e qualche temporale ma anche il solo illudersi era vietato, di questi tempi vicino al mare non arrivano quasi mai per cui occorreva pensare al così detto piano B; ed è venuto facile trovare una meta al fresco, Scanno, sono bastate un paio di telefonate e la disponibilità del secondo B&B che abbiamo contattato. Risolta la questione logistica occorreva trovare la meta alle quote alte per una bella escursione, un’occhiata alle carte della zona e l’attenzione è caduta sul Greco, montagna che affascinava Marina e che non conosceva ancora, progetto un po’ ambiziosetto in cuor mio, ma valeva la pena provarci, per strada avrei sempre potuto convergere su mete secondarie ma non per questo meno belle o motivanti. L’obiettivo era anche un percorso che non avevo mai frequentato, il sentiero “Y3” che da Passo Gosi saliva traversando il versante Ovest della lunga cresta di Rocca Chiarano e che avvicinava molto l’obiettivo del monte Greco, la salita finale sarebbe stata in dipendenza delle variabili che avremmo trovato in alto, non per ultime le possibilità di temporali, gli stessi violenti e freschi che abbiamo trovato svalicando Forca d’Acero nel viaggio di avvicinamento a Scanno il venerdì pomeriggio. Una fine giornata rilassante in quel magnifico paese che è Scanno e finalmente una bella dormita come da tanto non riuscivamo a fare ci hanno un po’ impigrito, siamo usciti tardi dal B&B accumulando subito del ritardo sull’ora di partenza; saliamo fino a Passo Godi e lentamente ci siamo messi alla ricerca dell’attacco del sentiero, che abbiamo trovato un chilometro dopo il passo sulla sinistra, una anonima strada brecciata in leggera discesa si discosta da quella asfaltata che scende verso Villetta Barrea; è una bacheca in legno nemmeno cento metri più in basso e visibile dalla strada principale che attira la nostra attenzione, altrimenti nulla farebbe pensare che sia l’inizio del sentiero. Che sia l’imbocco del sentiero Y3 non si realizza immediatamente anche perché si è distratti dalla presenza sul lato opposto della strada di un’altra bacheca in legno che sancisce l’inizio di un altro sentiero verso la montagna grande e che non è riportato sulle carte, ancora una prova delle tante che ci sarebbe bisogno di una bel restyling per non dire di una nuova edizione delle carte del parco. Oltrepassiamo una sbarra e su un’ampia carrareccia leggermente in salita andiamo in contro al vicino bosco e ad un rumoroso taglialegna che se pur nascosto nel fogliame sta facendo una casino infernale; sono già le nove e siamo un po’ in ritardo rispetto ai progetti, la mattinata per fortuna è fresca, ne abbiamo bisogno dopo tanto caldo, e per ora la minaccia di temporali non c’è, il cielo è terso e le nuvole quasi assenti. Entriamo subito nel bosco, rado e aperto, un primo tornante sulla sinistra e subito dopo un altro sulla destra, lo scenario non cambia, bosco, bosco e bosco, soprattutto quando si riprende il rettilineo, con pendenza leggerissima e quasi costante continua imperterrito, quasi lineare per circa tre chilometri, in questi tre chilometri saliamo di un niente, poco più di cento metri; monotonia e qualche domanda su quanto abbiamo davanti ci assalgono ma la carta è chiara, il sentiero è questo, diritti che sembra tirato col righello, fin quando non inizia a salire. L’aspettativa era quella che ad un certo punto si sarebbe inerpicato, era inevitabile, davanti avevamo seicento metri di dislivello in meno di tre chilometri. Detto e fatto; la lunga strada, evidentemente ad uso dei boscaioli termina in uno spiazzo che permette la manovra, siamo a metà strada rispetto alla cresta lassù in alto, da lì per tornanti più o meno stretti e finalmente su un sentiero degno di questo nome si inizia a salire, qualche bandierina sugli alberi, solo un grosso “omone” e ancora bandierine sparse e quasi scolorite fino a che non si inizia ad intravedere la fine del bosco. Superati duecentocinquanta metri di dislivello dallo spiazzo e meno di quattrocento dall’inizio usciamo allo scoperto e intravediamo la cresta su in alto, tra noi e la cresta ancora quattrocento metri sopra di noi, solo un mare di prateria. Fuori dal bosco l’erba è alta, qualche ometto a terra è poco visibile occorre stare attenti a non lasciare la flebile traccia per non perdere il sentiero, rientriamo nel bosco e lo rilasciamo diverse volte, si va di traverso e si sale poco fino ad incrociare una palina e il sentiero che sale da Barrea. Verso Ovest le montagne dalle Mainarde al Marsicano somigliano ad una cordigliera di isole che si solleva da un mare di nuvole bianche. Era tanto che non subivamo questo fascino, notevole impatto emotivo questo colpo d’occhio. A valle il lago e i paesi sono coperti da nuvole dense e basse, sembrano ribollire e scomporsi per poi riappiattirsi ancora, un enorme pentolone insomma. Ometti e sparute bandierine sulle poche rocce in mezzo alla prateria segnano il sentiero di salita, sfila accanto al rudere di un vecchio stazzo, sulle carte è lo stazzo dell’Affogata; magnifici fiori di Poligama maggiore giocano tra le rovine a formare un bel giardino roccioso. Dietro di noi il catino della valle non contiene più la spumeggiante nuvolaglia, ormai è così salita e vicina che i primi sfilacciamenti iniziano a salire e scorrerci accanto, Marina davanti una ventina di metri quasi sparisce dalla mia vista in pochi istanti, la velocità con cui salgono sembra che presto verremo sommersi definitivamente; seguire la traccia ora è più che mai importante, rinforzo i piccoli ometti che incontro lungo il percorso pensando che mi sarebbero tornati utili al rientro, poi, le nuvole, così come sono arrivate spariscono; una, due, tre volte si ripete la scena, siamo soli e quando veniamo avvolti dalle nuvole il senso di isolamento si amplifica ancora di più, poi come se avessero giocato ad intimorirci le nuvole riscendo verso valle lasciandoci godere le solitarie praterie colme di doline di cui il versante è composto; intorno a quota 2000 la traccia si perde in un mare di rocce affioranti, vira verso Nord Est e per un momento rischiamo di perderla, nessun segnale tra le pietre ci fa sorgere qualche dubbio, nella perlustrazione, alla ricerca di una qualche sorta di indicazione o di bandierina, incappiamo in un grosso branco di camosci; siamo lontani ma non si fidano, in maniera frenetica e scomposta sfilano all’interno del vallone che scende ripido davanti a noi. E’ evidente che siamo fuori strada, sulla carta il sentiero piega verso Est, forse abbiamo oltrepassato quel tornante, ritorniamo sui nostri passi fino all’ultimo segnale incontrato e l’errore lo capiamo subito, questa volta a favore di marcia scorgiamo la bandierina che piega la direzione verso Nord-Est. Il sentiero è flebile ma gli ometti sono frequenti, li seguiamo e grato ai tanti che li hanno costruiti cerco di rinforzare con pietre nuove i più minuti. Le nuvole intanto si sono alzate ed hanno coperto il sole, non siamo più nella nebbia ma il cielo non è più quello di prima, è mezzogiorno quando arriviamo in cresta, gli orizzonti sono omogenei, non c’è più profondità, intorno alle 14 erano minacciati temporali, temevamo che la cappa che si stava abbassando era il preludio alle previsioni nefaste. Rimane male Marina quando in cresta individua il Greco al di là del profondo vallone che avevamo davanti; per raggiungerlo avremmo dovuto scendere circa centocinquanta metri e risalirne quasi trecento, oppure avremmo dovuto continuare verso Sud in cresta diminuendo tanto il dislivello ma aumentando di tanto il chilometraggio. Cominciava ad essere stanca, l’ulteriore sgobbata non prevista e soprattutto il meteo che si metteva minaccioso la stavano minando, il Greco era diventato troppo lontano e con grande disappunto è stata concorde nel ripiegare nella cima ormai vicina di Rocca Chiarano. Mantenendo la cresta quindi abbiamo preso verso Nord per una quindicina di minuti, tra grosse pietraie ed in mezzo alle nuvole che riprendevano a salire veloci sul fianco della montagna è comparso l’omino di vetta, la solita pietra imbrattata col pennarello sanciva la quota dei 2175 metri della vetta. Tra fiotti di nuvole che non oltrepassavano la cresta la lunga dorsale della Serra di Rocca Chiarano sfilava tra un vedo e non vedo dove l’arsa mole della Serra di Rocca Chiarano sembrava molto più alta e maestosa di quanto non fosse, in fondo nemmeno cento metri più alta della sua Rocca omonima. Oltre la cresta che scendeva repentina tutta la piana di dune fino alle Toppe del Tesoro era arsa e monocolore, certamente la mancanza di luce contribuiva ad appiattire gli orizzonti, dalla valle sotto di noi una dorsale tonda ed ampia saliva fino al Greco, ci si andava perdendo il desiderio di Marina di incamminarsi fin sulla sua cima che nel frattempo si andava perdendo tra scure nubi. Il cielo andava ulteriormente chiudendosi in una compatta coltre grigia, di tanto in tanto diradava la sua impenetrabilità, ci ha comunque permesso di raggiungere a vista il famoso omino di cresta, una quasi scultura nuragica, un monolite di lastre rocciose perfettamente impilate, alta come una persona e anche più, di certo più forte di ogni inverno e di ogni bufera abbattutisi da queste parti. Trastullandoci in cresta, con la scura sagoma del Greco là vicina che continuava e demoralizzare Marina, si erano fatte le 13, un’ora ai temporali che erano stati previsti e immersi nel grigiume più assoluto. Riprendiamo a scendere per la stessa traccia dell’andata, Marina sempre a fare da lepre corre via senza sosta; quando arriviamo al vecchio stazzo le nuvole si sono alzate e compattate, la luce del sole è sparita del tutto, c’è aria di pioggia nell’aria ma per fortuna ci concede una benevola tregua, nel bosco non riusciamo ad intuire come si stia davvero mettendo il meteo, tuoni non se ne sentono, cominciavamo a pensare che l’avremmo sfangata. E così è stata e intorno alle tre del pomeriggio arriviamo alla macchina. Ci rassettiamo e risaliamo Passo Godi per andare a mangiare qualcosa al rifugio; quando usciamo un’ora più tardi inizia a piovere, ora si che può, lo prendiamo come un buon viatico per il rientro e per sperare in temperature più basse a casa. Il Greco, la più alta montagna dei Marsicani cui Marina sembra tenere molto è saltato, peccato, ma ormai è nel mirino, l’appuntamento è solo rimandato, in testa mia c’è già il prossimo assalto, lei, Marina, non lo sa ancora.